“Hardball” di Brian Robbins

Robbins non è Raimi, ma nemmeno Robinson (ricordate il suo sublime “Uomo dei sogni”?), e sembra esserne cosciente. In questo senso nella sua opera c’è una grande modestia e una precisa volontà di fissarsi dei limiti oltre i quali non vuole andare.

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Il baseball è lo sport più amato dagli americani. Non è nemmeno più solo uno sport. E’ uno stile di vita, un modo di affrontare l’esistenza, una bandiera da esporre nei momenti di difficoltà. Ma è anche cinema, anzi, è uno degli sport che si prestano meglio a rimanere impressionati nella cortina filmica del movimento. Detto questo, c’è una precisazione da fare: ci sono due modi di filmare il baseball. Uno è quello che parte dalla pratica sportiva, dal diamante disegnato in mezzo al campo e dagli spostamenti laterali delle pedine in campo, per riflettere sul senso del gioco allargando la considerazione alla doppia valenza della rappresentazione. E’ il caso del film di Raimi/Costner “For love of the game”. Una seconda possibilità da contemplare è quella che vediamo in atto nell’opera di Robbins: filmare scampoli improvvisi di vita ordinaria riportandoli alla legge del baseball. Il che significa azzeramento quasi completo del fuoricampo (in senso naturalmente filmico) e visibilità costante di un campo di gioco che domina letteralmente la scena. Fuori c’è sicuramente qualcos’altro, ma poco importa. L’essenziale è produrre l’evento, masticarlo in fretta ed esibirlo come traccia di uno Spettacolo già avvenuto. Il protagonista dell’opera è uno di quei looser che piacciano tanto al cinema americano (e francamente anche a noi). Ha la possibilità di rimettere le cose a posto nella sua vita quando gli viene affidato un compito particolare: quello di seguire un gruppo di piccoli giocatori di baseball (l’età si aggira intorno ai dieci anni). In cambio di tutto ciò gli verrà offerta una bella somma di denaro. L’assegno però potrà intascarlo soltanto a patto che riesca a formare un gruppo non inferiore alle dieci persone. Non mancherà poi di innamorarsi dell’insegnante di questi ragazzi. Sembrano essere presenti le categorie ideali che non possono mancare: la redenzione, la morale del comportamento, il senso di rivincita che pare essere tratteggiato come un sacrosanto diritto dell’uomo. Eppure tutto ciò non ci convince, o meglio, ci lascia un po’ perplessi. Cercando di fare mente locale, ci viene in mente un campo da gioco, un’indiavolata musica rap che accompagna ogni movimento della palla, delle triangolazioni vorticose della macchina da presa. Ma c’è dell'altro. Una precisa tendenza stilistica all’accerchiamento, alla pressione, alla trasfigurazione dell’impianto narrativo in elegia dell’azione risolutrice. Quella del gioco naturalmente, non quella statica del parlato. Ecco dunque l’anima dell’opera, il suo reale sostrato interno: quello di rappresentazione dei limiti del visibile filmico. Cerchiamo di spiegarci meglio. Robbins non è Raimi, ma nemmeno Robinson (ricordate il suo sublime “Uomo dei sogni”?), e sembra esserne cosciente. In questo senso la sua opera trasuda grande modestia, ma al tempo stesso una precisa volontà di fissarsi dei limiti oltre i quali non vuole andare. E così è effettivamente. Da qui un preciso senso del proprio limite e una perlustrazione precisa, abbagliante, ritmata, di ciò che accade sul campo. Il gioco si fa stile, il cinema si sublima in virtuosismo tecnico che lascia il segno. Fuori esiste ancora una storia, ma la perimetrazione puntuale del terreno sportivo non concede troppo spazio a divagazioni inutili. Ogni racconto ha un cuore che pulsa da qualche parte. Stavolta lo abbiamo trovato in quell’istante lunghissimo in cui la palla passa da un guantone all'altro. Da un gioco (il baseball), ad un altro (il cinema).
Titolo originale: Hardball
Regia: Brian Robbins
Sceneggiatura: John Gatins dal romanzo di Daniel Coyle
Fotografia: Tom Richmond
Montaggio: Ned Bastille
Musica: Mark Isham
Scenografia: Jaymes Hinkle
Costumi: Francine Jamison-Tanchuck
Interpreti: Keanu Reeves (Conor O’Neill), Diane Lane (Elizabeth Wilkes), John Hawkes (Ticky Tobin), Bryan Hearne (Andre Ray Peetes), Julian Griffith (Jefferson Albert Tibbs), Michael B. Jordan (Jamal), A. Delon Ellis jr. (Miles Pennfield II), Kristopher Lofton (Clarence)
Produzione: Tina Nides, Brian Robbins, Micheal Tollin
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 106’
Origine: Stati Uniti/Germania, 2001

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------
--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array