“Faccio film per il piacere di raccontare”: incontro con Milko Manchevski

Ci sono due modi per filmare la Storia: quello rigoroso, fedele, filologico, e quello “sublime”, teso ad una sua trasfigurazione in chiave metafilmica. Quello di Manchevski è cinema-cinema, pura visione/dispositivo per la visione. Il film-dibattito a un’altra volta. Abbiamo incontrato il regista macedone venuto in Italia a presentare "Dust".

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SENTIERI SELVAGGI: Il godimento fruitivo che proviamo di fronte ai tuoi film ci rimanda direttamente ad un testo di Barthes, “Il piacere del testo”, in cui il grande filosofo francese si lascia andare ad una lunga dissertazione su quell’effetto che un certo testo può provocare sul proprio fruitore. Fin quando ci si trova di fronte a un procedimento schematico e per certi versi controllato, tutto bene. Ma il piacere che si può provare di fronte ad uno sbandamento in corsa che non c’entra apparentemente nulla….
MANCHEVSKI: Mi piace prendermi dei rischi in sede di riprese. Non voglio che il mio cinema assomigli a molte opere di oggi che riflettono una certa stanchezza nel procedimento filmico. Fare cinema è pericolo, è giravolta rischiosa a cui non so rinunciare facilmente. Non mi interessa provocare condivisione e uniformità di giudizi. E soprattutto non me la sento mai di intraprendere la strada più tranquilla, quella meno accidentata. Raccontare una storia non significa dominarla, possederla, conoscerla. Significa amarne il carattere epidermico, quello relativo alla intelaiatura superficiale, ma anche e forse soprattutto quel tasso di imprevedibilità che non può non contenere al suo interno.

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SENTIERI SELVAGGI: Ti riferisci chiaramente a quel racconto continuamente interrotto del film…
MANCHEVSKI: Certo. La storia non può non essere interrotta. Dipende da troppi fattori esterni, da troppe volontà che non coincidono quasi mai con quelle appartenenti ai fatti raccontati. Il narratore in questo senso è un deus ex machina che mi piace immaginare come elemento interno all’evento raccontato. Una sorta di istanza narrante che prende parte al gioco della rappresentazione insomma.

SENTIERI SELVAGGI: Ma non è sempre così però…
MANCHEVSKI: Infatti. Adoro creare disorientamento, confusione, sfasamento. Il narratore che in “Dust” dà l’avvio alle danze è ad esempio un personaggio presente in ben due storie: la prima (quella in cui è immersa, raccontando) e quella che appunto narra. Eppure fino alla fine del racconto non si capisce bene chi sia. L’immagine finale, quella risolutiva per intenderci, rappresenta un commiato dall’opera che mette in chiaro certe cose, ma che non ha la pretesa di giungere ad una parola fine che chiuda per sempre il racconto.

SENTIERI SELVAGGI: In questo senso ci pare che il tuo cinema sfugga continuamente ad ogni definizione. Cos’è “Dust”? Un western, un film storico, una tragedia balcanica? Oppure semplicemente un “eastern” come lo hai chiamato tu stesso?
MANCHEVSKI: Come ho già detto, non mi piace l’etichettatura. Sa di morte dell’intuizione, di funerale dello spirito critico. “Dust” è tante cose insieme, ma non una in particolare. Il western è morto, la tragedia definisce tante cose insieme e mi sembra un termine un po’ troppo vago. L’eastern sarebbe una parafrasi del western in chiave orientale. In fondo non mi convince troppo nemmeno questa definizione. Mi preme invece sottolineare che il mio film è innanzi tutto racconto. Racconto del racconto se è possibile.
SENTIERI SELVAGGI: L’oralità del discorrere è senza dubbio una delle chiavi più significative del tuo cinema. In “Before the rain” si avverte un pudore raro per il cinema di oggi nel produrre “Verbo”. “Dust” poi per certi versi sembrerebbe quasi un film muto, non parlato.
MANCHEVSKI: Non mi piace un cinema molto parlato. L’essenzialità del discorso, della frase, della parola, è una forma di rispetto nei confronti di ogni discorso che si voglia affrontare. A volte sono portato a risolvere certe questioni presenti nella mia storia soltanto a livello visivo. L’immagine da questo punto di vista aiuta molto nel tentativo di non dire mai le stesse cose due volte, e soprattutto nel concettualizzare in modo libero ogni tipo di approccio al filmico. E’ per questo motivo che lavoro molto sulla costruzione dell’immagine, su quegli accostamenti visivi che compongono l’inquadratura e che producono all’interno della singola sequenza un certo ritmo compositivo. Con questo non voglio dire che trascuro però la sceneggiatura…

SENTIERI SELVAGGI: Anzi, ci sembra tutto il contrario. La concatenazione narrativa della tua opera è molto sofisticata. Quasi più complessa di quella dell’opera precedente….
MANCHEVSKI: In “Dust” ho voluto trasportare un po’ tutti gli elementi che già facevano parte di “Before the rain”. La differenza è che qui sono decisamente amplificati. A riguardo, ho privilegiato una sorta di lettura tridimensionale di tutto ciò che giravo, affinché ogni elemento della rappresentazione potesse essere al tempo stesso visto da diversi punti di vista, da diverse angolazioni espositive. Credo che il compito del regista sia sempre quello di mantenere una grande coerenza di racconto da una parte, e dall’altra tentare però anche strade nuove per ciò che riguarda l’esposizione dei fatti raccontati. In “Before the rain” la struttura era quella di un cerchio, visto che comunque tutte e tre le storie erano destinate a riconvergere in un unico punto, in un solo spazio. In “Dust” invece ho provato ad immaginare l’iter impazzito di una retta che diventa curva, che diventa cerchio, che si spezza in parti non più ricomponibili. Mi sono divertito molto nel creare alcune aspettative presso il pubblico, salvo poi distruggerle regolarmente.

SENTIERI SELVAGGI: Il divertimento c’è stato sicuramente e si vede, eppure ne esce fuori comunque un film molto teorico, quasi teso alla riformulazione continua del concetto stesso di spazio, ma soprattutto di tempo. Cosa c’è dietro tutto questo? Improvvisazione e casualità, o precisione e metodologia?
MANCHEVSKI: Partiamo da una premessa fondamentale. Il cinema deve essere divertimento. In questo senso è come se il regista avesse una specie di contratto con lo spettatore. Ha da questo punto di vista quindi l’obbligo di produrre Spettacolo e intrattenimento. Non sono d’accordo ad esempio con quei registi che, per troppo narcisismo, non fanno altro che avvolgersi su se stessi, creando un prodotto assolutamente noioso e troppo autoreferenziato. Detto questo, ammetto tranquillamente che con il mio cinema mi piace molto sperimentare. Mettersi in poltrona (nel nostro caso sul set) a raccontare una storia è una delle cose più belle che possano esserci, ma c’è modo e modo per raccontarle. I due elementi fondamentali della narrazione saranno comunque lo spazio e il tempo. In “Dust” ho voluto semplicemente andare al di là della solita ripartizione tra un tempo ed uno spazio assolutamente riconoscibili e ho voluto immergere lo spettatore in una nuova concezione del tempo della visione, e dello spazio del racconto.

SENTIERI SELVAGGI: Anche “a costo” di continui tentativi di riposizionare l’immagine in un certo tempo della storia…
MANCHEVSKI: A mano a mano che il racconto procede, vorrei si creasse una sorta di complicità tra lo spettatore e il mio sguardo sul narrato. E’ per questo che con i miei film vorrei sempre spingere il pubblico a entrare dentro la vicenda, sollecitandone dunque continuamente l’approccio più partecipe che possa esserci.

SENTIERI SELVAGGI: Non è un caso che il tuo cinema sembra delineare una sorta di interattività con l’occhio di chi vede il film…
MANCHEVSKI: Mi piace molto questa definizione di film interattivo. Mi pare che esprima al meglio la volontà che si cela dietro ogni mia scelta registica: quella di raccontare una storia che poi però verrà immagazzinata e recepita come un qualcosa di molto differente rispetto a quello che avevo pensato io. Non si tratta di una distorsione del fatto raccontato, ma dell’effetto prodotto dal racconto stesso sui tanti diversi sguardi che hanno a che fare con l’interpretazione del mostrato. Se c’è una cosa che non sopporto, è lo spettatore pigro che pretende di non fare alcuno sforzo di comprensione e soprattutto di immaginazione. Si tratta di un pubblico che non fa per il mio cinema…

SENTIERI SELVAGGI: In fondo questo atteggiamento è quello che ha regnato questa mattina in conferenza stampa. Le domande di alcuni giornalisti hanno cercato disperatamente di porre il tuo film sotto una luce rassicurante, tentando di incanalarlo o all’interno di un genere, o peggio all’interno di un discorso che abbia degli agganci con la situazione odierna dei Balcani. Non si è capito ancora forse che il tuo è un cinema sfuggente, imprendibile….
MANCHEVSKI: E’ probabile che dei discorsi del genere provengano da persone che in fondo non amano il cinema. E’ perfettamente inutile cercare di inquadrare “Dust” all’interno di una prospettiva rigorosamente storica. In occasione della presentazione del film al Festival di Venezia ho detto alla stampa che il film avrei potuto girarlo tranquillamente in Grecia, in Russia, in Cina. Credo che tutto ciò la dica lunga sulle mie intenzioni reali. Da un lato vorrei che il mio cinema dividesse, ma non accetto che venga tacciato di poco scrupolo storico, o di mancata radiografia di una certa situazione attuale. “Dust” è finzione, e in quanto tale pratica un territorio che amo molto, quello della fantasia. Le soluzioni trovate per l’andamento della storia sono fantasiose, la storia che racconto è frutto di fantasia, persino le immagini riguardanti i nostri anni non possono dirsi realistiche.

SENTIERI SELVAGGI: Nel corpo a corpo sei imbattibile. E’ stato emozionante scontrarsi con un cinema che non ha paura di rimescolare le carte del genere, filmando la violenta coazione a ripetere di corpi votati all’autodistruzione. Per certi movimenti di macchina abbiamo pensato a Leone, per il massacro finale al Pechinpah di “Wild Bunch”. Chi è la tua fonte di massima ispirazione mentre giri?
MANCHEVSKI: Devo dire che non c’è un regista che mi piaccia citare in modo particolare. Prendo un po’ da tutti, sapendo che è difficile oggi inventare qualcosa di completamente nuovo. Come referenti Leone e Pechinpah mi vanno benissimo, ma amo molto anche Scorsese, Forman, Kieslovski. Mi piacciono poi due registi giovani che sono Todd Solondz e il giapponese Takahashi i cui film sono stati però distribuiti soltanto in pochissimi paesi.

SENTIERI SELVAGGI: Citerai anche un po’ tutti, ma il tuo cinema ci sembra assolutamente originale. Ha la grande qualità di non assomigliare a nient’altro che si giri oggi…
MANCHEVSKI: Sono contento di tutto ciò. La mia citazione nasce dalla volontà di fare comunque un cinema personale. Se non sortissi poi quest’effetto, me ne starei in casa. Non filmerei più nulla.

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